Giovanni Papini: Il crepuscolo dei filosofi
Pubblicato in: Rivista Filosofica, anno VIII, vol. IX, fasc. III, pp. 397-399.
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Data: maggio - giugno 1906
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Lungi dal convertire la storia dei sistemi scientifici in una successione logica, il Papini riconduce i pensieri dei filosofi agli istinti individuali: Hegel si rifugia nell'assoluto per salvarsi dal turbinio romantico che lo affatica. Schopenhauer sceglie la volontà come stoffa del mondo per gelosia contro i razionalisti, mentre l'orgoglio lo eccita a creare una metafisica nuova. Comte nello studio delle matematiche abbandona la religione materna, ma resta pur sempre anima essenzialmente religiosa. «Gli istinti profondi della vita non si lasciano menare da dieci formule, ma piuttosto sono capaci di crearne cento per giustificarsi».
Non l'ambiente determina gli istinti, ma gli istinti cercano o creano l'ambiente, la professione, le abitudini. La metafisica di Spencer non si educò tra i prontuari e i piani del l'ingegneria ferroviaria; ma sapere che tra quei piani e quei prontuari Spencer visse a lungo per libera scelta ci rivela i caratteri mentali che questo lavoro presuppone e che si ripercoteranno con precisione meccanica anche nella produzione filosofica dello scrittore inglese.
Per una contraddizione curiosa questo libro, ispirato al culto della personalità umana é una demolizione implacabile delle maggiori personalità apparse nel mondo del pensiero: Kant, Schopenhauer, Comte, Spencer, Nietzsche. Kant, che primo riconobbe nel pensiero umano un atto e mai non seppe comprimere le sue concezioni a perfetto sistema, é investito da questa filosofia dell'azione, nata dall'orrore dei sistemi, con predilezione particolare e con tutto un congegno complicato di astuzie di guerra che incominciano dal silenzio sui meriti indiscutibili delle tre critiche e si spingono fino alla noncuranza delle interpretazioni e delle riforme offerte dai neokantiani.
Perché, sebbene la tirannia delle autorità e la tirannia dei sistemi sembri forse al Papini l'intoppo più ingombrante alla vittoria del prammatismo, pure non si può onestamente giurare che oggi, fra l'urto di tante autorità contradditorie e la paura diffusa di accettare un principio fino alle estreme conseguenze,
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i grandi filosofi del passato non rimangano quasi soli in mezzo a una folla di eretici e di eclettici.
Nell'imperativo categorico dì Kant il Papini si ostina a veder soltanto una traduzione presuntuosamente nebulosa del precetto negativo di Marco Aurelio, a disconoscere quel carattere di universalità e di legge, a cui non può assorgere invece una formula che dal desiderio contingente di ciascun individuo trae la regola universale dell'azione. L'astensione dal fare altrui ciò che fatto dagli altri potrebbe in condizioni analoghe nuocere a noi é l'omertà predicata fra tutti i delinquenti, fra tutti gli uomini che hanno peccato o che domani potranno peccare e desiderare la complicità del silenzio altrui: nessuno potrebbe sollevarla a principio di legislazione universale, se pur non ami di sovvertire legalmente la società civile.
Talvolta, trascinato dall'ardore polemico, il Papini si spinge troppo oltre e corre il pericolo di rimaner prigioniero nel campo avverso. Parlando dello Spencer, ha appena demolito la teorica dell'evoluzione a profitto dell'irreducibilitù degli individui , quando per capovolgere l'altra dottrina dell'adattamento dell'uomo all'ambiente egli ricorre alla biologia e rammenta che la caratteristica dei vertebrati sta nello sforzo per non lasciar modificare le condizioni interne dai mutamenti esterni. L'accenno ai vertebrati, giustificato nello Spencer evoluzionista, non è più lecito quando si rompano i ponti che congiungevano le diverse specie, e ricorda un poco quei liberisti che, mentre combattono il materialismo storico, lo accettano senza accorgersene e si affannano a ripetere che la conflagrazione ultima tra lavoratori e capitalisti prevista dal Marx non potrà scoppiare, non già per l'intervento di motivi etici, ma perché l'impoverimento progressivo delle masse è fantasticheria smentita dalle statistiche.
Il Papini annunzia il crepuscolo de' filosofi, licenzia la filosofia come inutile serva. Ma non si chiude a lungo nel suo rancore. È un figlio che batte la madre, ma ritorna presto a lei e tenta di farla più contenta e più lieta. E in ultima analisi condanna bensì la filosofia intesa come tentativo di sistemazione del mondo, ma rispetta le singole discipline filosofiche come la psicologia, la logica e la morale, comprende il valore
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suggestivo delle metafisiche, che relega nell'onorevole compagnia dei poemi epici, e infine preconizza l'avvento di una filosofia nuova «che renderà pratica e reale la missione superba dell' Uomo-Dio, padrone e creatore delle cose», predicando la necessità di rifare il mondo invece di limitarsi a contemplarlo. Malgrado l'avversione agli universali , questa filosofia nuova comincia col ridurre le innumerevoli forme della vita umana a un denominatore comune, che è la ricerca del potere; e malgrado l'orrore delle parole oscure, termina raccomandando alla scienza di utilizzare meglio l'anima. La qual raccomandazione sarà utile e fors'anche molto giusta, ma, enunziata cosi, sembra una parodia del linguaggio degli oracoli.
Il libro, adorno di elegante veste tipografica, è scritto in quello stile rotto, violento, bene adatto a risvegliare gli addormentati, che anima cosi vivacemente le colonne del Leonardo, ma, trascinato per quasi trecento pagine, finisce con l'ingenerare un senso di sazietà e di stanchezza. Ma é senza dubbio un libro ricco di bellezza e di forza, è una sinfonia di motivi ideali profusi con signorile prodigalità.
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